03/11/2021

I Pellegrinaggi di Don Matteo – Ep. 0 (Pilota): Mistero in Transnistria

[Disclaimer: tutto quello che state per leggere è frutto di ricche pippe mentali dell'autore e va interpretato come tale. Niente – e sottolineo niente – di ciò che segue è accaduto davvero.]

Sull'aereo per la Transnistria l'umore non era dei migliori. Aleggiava nervosismo. Presto avremmo messo piede in un paese nuovo, dove non eravamo mai stati.
Al decollo, avevo la classica ansia del giovanotto all'esordio.
Fosse stato per me, avrei raggiunto Tiraspol con la mia fidata bicicletta, il vento in faccia mi aiuta a calmarmi. Ma non potevo lasciare i miei ragazzi da soli.
Tentai di spezzare il silenzio con la mia barzelletta di repertorio: «Ohilà Marcelo, lo sai qual è il colmo per un alluce valgo? Ehehe». Già pregustavo la risata generale, sorridendo sotto i baffi. Marcelo non mi diede supporto, però. Testa calda, come sempre, mi rispose: «Uff, lascijami in pace, Don!».
Prego ogni giorno per lui, in futuro forse otterrà il dono della pazienza.
Il dolce Stefanino, invece, mi si fece vicino e sussurrò curioso: «Qual è il colmo, Don? Io ho entrambi gli alluci così!».
Prego anche per lui tutti i giorni. Anche tre volte al giorno. Abbi pietà di lui, Signore.

Atterrammo di lì a poco in Transnistria. C'era un vento freddo, e il cielo era coperto e scuro.
Appena scesi dall'aereo, mister Simone fece l'appello di routine. Attesi il mio turno, preparandomi ad esclamare uno squillante «Presente presentino, mister!», come facevo sempre; ma il mio turno non giunse.
Giusto prima di me, che mi chiamo Matteo, nella lista dei nomi c'è il duo dei cari ragazzi uruguagi: il giovane Martín e l'esperto Matías. Il mister chiamò: «Martín!», ma Martín non rispose. Ci guardammo tutti intorno per incrociare il suo sguardo e, in effetti, non lo trovammo con noi.
I volti già tesi dei miei compagni si appesantirono della preoccupazione che piombò sui loro cuori.
Lo cercammo dappertutto e grazie al Cielo lo trovammo. Ma, ahimè, in che stato lo trovammo!
Era nascosto in un angolo dell'hangar in cui il nostro aereo era stato posteggiato, imbavagliato e accasciato a terra, gemeva flebilmente. La sua gamba destra era chiaramente spezzata.

«Ma che brutto infortuniooooo!», esclamo Niccolò quando lo vide. Come sempre, fu in grado di esprimere il pensiero di tutti in parole semplici.
Marcelo sbracciò, girandosi dall'altro lato per non guardare. Il povero Edin iperventilava per lo shock: ansimava così forte che lo spazio fra i suoi incisivi produceva un fischio assordante. Ma quello messo peggio era di gran lunga Matías: per calmarsi cercava disperatamente di fare ciò che sapeva fare meglio. Ogni cosa gli capitasse a tiro, la prendeva e la riprendeva e la riprendeva ancora una volta. Non riusciva a stare fermo.
Ebbi compassione di loro, per cui decisi di passare all'azione. Mi misi subito a collaborare con i militari di Tiraspol, che nel frattempo avevano isolato la zona e cominciato ad indagare.
Prima che lo portassero all'ospedale, il povero Martín riuscì solo a dirci che era stato aggredito nel bagno dell'aereo. Non aveva visto l'aggressore in volto. A un certo punto doveva aver perso i sensi e si era risvegliato lì, nelle condizioni in cui l'avevamo trovato. Non era cosciente al momento in cui era stato colpito, per questo non aveva gridato.
Rimasi scioccato all'idea che il balordo che l'aveva conciato così era in volo con noi. Le forze dell'ordine locali iniziarono con i piloti e gli assistenti di volo un serrato giro di interrogazioni. Provai a chiedere che pista stessero seguendo, ma non vollero dirmelo. Lo capisco, mannaggia, non è facile fidarsi. In fondo per loro anch'io ero un sospettato.

Provai allora a fare qualche domanda ai miei compagni di volo, già che c'ero. Il direttor Marotta mi disse che non aveva visto niente. Strano, di solito ha l'occhio fino.
Matías era troppo sotto shock per parlare; l'unica cosa che riuscii a sapere da lui fu che Martín gli era stato vicino per tutto il volo, fino al momento di andare in bagno. Non ricordava perché non fosse andato a cercarlo, dopo essersi accorto che non era ritornato.
Gli altri sapevano poco e nulla. Stavano tutti dormendo o ascoltando musica, me compreso. Mi immergo con troppo trasporto nei canti gregoriani, accipicchia.
La svolta arrivò nell'ora più buia, come fa sempre quando ad agire è la Divina Provvidenza: chiesi un parere a Ivan e Marcelo, i miei cari compagni croati. I ragazzi sembrano molto ferrati in questo genere di cose; chissà, magari ascoltano qualche podcast a tema. Pare che avessero visto l'ematoma sulla gamba del povero Martín, ed erano d'accordo nel pensare che la sua forma fosse familiare: molto lunga, stretta e frastagliata. È molto difficile che si formi un ematoma di quel genere quando si usa un colpo secco per spezzare un arto (così mi hanno detto, almeno; che ragazzi brillanti! ferrati anche in medicina). (Se vuoi imparare la medicina bene come Marcelo e Ivan, segui la rubrica del dR. anocchio qui].
Insomma, l'arma del delitto non era un oggetto qualunque. E mentre ne parlavamo, subito mi balzò in mente di cosa potesse trattarsi...

Quando fummo di nuovo tutti riuniti, prima che il Comandante iniziasse a prenderci da parte per i nostri interrogatori, mister Simone ci chiese se ce la sentissimo di giocare lo stesso, per risollevare l'animo al povero Martín che ci avrebbe seguito in tv; disse che il nostro giovane compagno l'aveva chiamato, e sperava che giocassimo.
«Ma certo, mister! Mi batterò per lui in campo!», disse con tono fermo Alexis.
«Non così in fretta, Alexis!», ribattei. «Agenti, mettetelo in manette!».
I miei compagni mi guardarono come se fossi impazzito, ma in fondo ai loro cuori avevano la certezza che, come sempre, sapevo quel che facevo.
Grazie al suggerimento di Ivan e Marcelo, mi era venuto in mente l'unico oggetto lungo e frastagliato con cui il povero Martín poteva essere stato colpito, ovvero la statua di pietra lavica a forma di Cile che Alexis Sanchez portava sempre nel bagaglio a mano!
Avevo ragione: una volta ammanettato, Alexis confessò subito, in lacrime. Disse che era frustrato e voleva più spazio, così si era deciso a far fuori la concorrenza, una partita dopo l'altra. Siccome percepii il suo sincero pentimento, decisi di perdonarlo e lo spinsi a chiedere personalmente scusa al giovane Martín Satriano, in modo che i due potessero fare pace al più presto. Insistetti con i ragazzi e col mister affinché avessero compassione di lui.
Fortunatamente, le mie parole fecero presa. Fu certamente punito, ma senza accanimento.

Tutto è bene quel che finisce bene: ora il mio animo è più tranquillo, perciò potrò dare il massimo in partita! Che vinca il migliore!

~ Don Matteo Darmian, ogni tot di tempo una nuova storia – solo su Rai 11, TV7000 e Ranocchiate.com

I Pellegrinaggi di Don Matteo – Ep. 0 (Pilota): Mistero in Transnistria

[Disclaimer: tutto quello che state per leggere è frutto di ricche pippe mentali dell'autore e va interpretato come tale. Niente – e sottolineo niente – di ciò che segue è accaduto davvero.]

Sull'aereo per la Transnistria l'umore non era dei migliori. Aleggiava nervosismo. Presto avremmo messo piede in un paese nuovo, dove non eravamo mai stati.
Al decollo, avevo la classica ansia del giovanotto all'esordio.
Fosse stato per me, avrei raggiunto Tiraspol con la mia fidata bicicletta, il vento in faccia mi aiuta a calmarmi. Ma non potevo lasciare i miei ragazzi da soli.
Tentai di spezzare il silenzio con la mia barzelletta di repertorio: «Ohilà Marcelo, lo sai qual è il colmo per un alluce valgo? Ehehe». Già pregustavo la risata generale, sorridendo sotto i baffi. Marcelo non mi diede supporto, però. Testa calda, come sempre, mi rispose: «Uff, lascijami in pace, Don!».
Prego ogni giorno per lui, in futuro forse otterrà il dono della pazienza.
Il dolce Stefanino, invece, mi si fece vicino e sussurrò curioso: «Qual è il colmo, Don? Io ho entrambi gli alluci così!».
Prego anche per lui tutti i giorni. Anche tre volte al giorno. Abbi pietà di lui, Signore.

Atterrammo di lì a poco in Transnistria. C'era un vento freddo, e il cielo era coperto e scuro.
Appena scesi dall'aereo, mister Simone fece l'appello di routine. Attesi il mio turno, preparandomi ad esclamare uno squillante «Presente presentino, mister!», come facevo sempre; ma il mio turno non giunse.
Giusto prima di me, che mi chiamo Matteo, nella lista dei nomi c'è il duo dei cari ragazzi uruguagi: il giovane Martín e l'esperto Matías. Il mister chiamò: «Martín!», ma Martín non rispose. Ci guardammo tutti intorno per incrociare il suo sguardo e, in effetti, non lo trovammo con noi.
I volti già tesi dei miei compagni si appesantirono della preoccupazione che piombò sui loro cuori.
Lo cercammo dappertutto e grazie al Cielo lo trovammo. Ma, ahimè, in che stato lo trovammo!
Era nascosto in un angolo dell'hangar in cui il nostro aereo era stato posteggiato, imbavagliato e accasciato a terra, gemeva flebilmente. La sua gamba destra era chiaramente spezzata.

«Ma che brutto infortuniooooo!», esclamo Niccolò quando lo vide. Come sempre, fu in grado di esprimere il pensiero di tutti in parole semplici.
Marcelo sbracciò, girandosi dall'altro lato per non guardare. Il povero Edin iperventilava per lo shock: ansimava così forte che lo spazio fra i suoi incisivi produceva un fischio assordante. Ma quello messo peggio era di gran lunga Matías: per calmarsi cercava disperatamente di fare ciò che sapeva fare meglio. Ogni cosa gli capitasse a tiro, la prendeva e la riprendeva e la riprendeva ancora una volta. Non riusciva a stare fermo.
Ebbi compassione di loro, per cui decisi di passare all'azione. Mi misi subito a collaborare con i militari di Tiraspol, che nel frattempo avevano isolato la zona e cominciato ad indagare.
Prima che lo portassero all'ospedale, il povero Martín riuscì solo a dirci che era stato aggredito nel bagno dell'aereo. Non aveva visto l'aggressore in volto. A un certo punto doveva aver perso i sensi e si era risvegliato lì, nelle condizioni in cui l'avevamo trovato. Non era cosciente al momento in cui era stato colpito, per questo non aveva gridato.
Rimasi scioccato all'idea che il balordo che l'aveva conciato così era in volo con noi. Le forze dell'ordine locali iniziarono con i piloti e gli assistenti di volo un serrato giro di interrogazioni. Provai a chiedere che pista stessero seguendo, ma non vollero dirmelo. Lo capisco, mannaggia, non è facile fidarsi. In fondo per loro anch'io ero un sospettato.

Provai allora a fare qualche domanda ai miei compagni di volo, già che c'ero. Il direttor Marotta mi disse che non aveva visto niente. Strano, di solito ha l'occhio fino.
Matías era troppo sotto shock per parlare; l'unica cosa che riuscii a sapere da lui fu che Martín gli era stato vicino per tutto il volo, fino al momento di andare in bagno. Non ricordava perché non fosse andato a cercarlo, dopo essersi accorto che non era ritornato.
Gli altri sapevano poco e nulla. Stavano tutti dormendo o ascoltando musica, me compreso. Mi immergo con troppo trasporto nei canti gregoriani, accipicchia.
La svolta arrivò nell'ora più buia, come fa sempre quando ad agire è la Divina Provvidenza: chiesi un parere a Ivan e Marcelo, i miei cari compagni croati. I ragazzi sembrano molto ferrati in questo genere di cose; chissà, magari ascoltano qualche podcast a tema. Pare che avessero visto l'ematoma sulla gamba del povero Martín, ed erano d'accordo nel pensare che la sua forma fosse familiare: molto lunga, stretta e frastagliata. È molto difficile che si formi un ematoma di quel genere quando si usa un colpo secco per spezzare un arto (così mi hanno detto, almeno; che ragazzi brillanti! ferrati anche in medicina). (Se vuoi imparare la medicina bene come Marcelo e Ivan, segui la rubrica del dR. anocchio qui].
Insomma, l'arma del delitto non era un oggetto qualunque. E mentre ne parlavamo, subito mi balzò in mente di cosa potesse trattarsi...

Quando fummo di nuovo tutti riuniti, prima che il Comandante iniziasse a prenderci da parte per i nostri interrogatori, mister Simone ci chiese se ce la sentissimo di giocare lo stesso, per risollevare l'animo al povero Martín che ci avrebbe seguito in tv; disse che il nostro giovane compagno l'aveva chiamato, e sperava che giocassimo.
«Ma certo, mister! Mi batterò per lui in campo!», disse con tono fermo Alexis.
«Non così in fretta, Alexis!», ribattei. «Agenti, mettetelo in manette!».
I miei compagni mi guardarono come se fossi impazzito, ma in fondo ai loro cuori avevano la certezza che, come sempre, sapevo quel che facevo.
Grazie al suggerimento di Ivan e Marcelo, mi era venuto in mente l'unico oggetto lungo e frastagliato con cui il povero Martín poteva essere stato colpito, ovvero la statua di pietra lavica a forma di Cile che Alexis Sanchez portava sempre nel bagaglio a mano!
Avevo ragione: una volta ammanettato, Alexis confessò subito, in lacrime. Disse che era frustrato e voleva più spazio, così si era deciso a far fuori la concorrenza, una partita dopo l'altra. Siccome percepii il suo sincero pentimento, decisi di perdonarlo e lo spinsi a chiedere personalmente scusa al giovane Martín Satriano, in modo che i due potessero fare pace al più presto. Insistetti con i ragazzi e col mister affinché avessero compassione di lui.
Fortunatamente, le mie parole fecero presa. Fu certamente punito, ma senza accanimento.

Tutto è bene quel che finisce bene: ora il mio animo è più tranquillo, perciò potrò dare il massimo in partita! Che vinca il migliore!

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