21/11/2020

Looking Back, l'Inter come non ve l'hanno mai raccontata: COLONIA - INTER 1-3

Il 20 Marzo 1985 avevo il raffreddore.

Ne sono sicuro perchè da bambino ero cagionevole di salute e costantemente reffreddato. Con l’eccezione dei mesi estivi, avevo sempre il naso chiuso, gli occhi lacrimanti ed il mondo che mi circondava aveva confini confusi, ovattati.

Tra un Vicks VapoRub e un altro, mi interessavo di calcio. Avevo sette anni e non avevo scelto ancora una squadra del cuore. Non avevo genitori che seguissero il maggiore sport nazionale, mia sorella men che meno. A scuola erano praticamente tutti juventini, ma i bianconeri non mi avevano mai scaldato il cuore. Sognavo una squadra romantica, che spezzasse il dominio dei non colorati ed inaugurasse un periodo nuovo di partite vinte con slancio, ma senza arroganza.

Dall’album Panini i volti di calciatori dai nomi esotici come Walter Schachner (Torino), Graeme Souness (Sampdoria), William Brady (Inter) cercavano di convincermi a sostenere la squadra per la quale giocavano. Ero fortemente indeciso.

Quel 20 marzo si giocava Colonia – Inter, gara di ritorno dei quarti di finale di coppa UEFA. All’andata l’Inter aveva vinto 1 a 0 a Milano, ma io non avevo visto la partita. Né aveva molto senso per me sentire di gare di andata e ritorno. Per non parlare del valore dei gol segnati in trasferta.

Quella per me era solo una partita, giocata da una squadra per la quale simpatizzavo.

I primi minuti non furono granchè, niente di esaltante sembrava accadere. Poi al 9’ Ferri decise di ravvivare il match, andando a farsi una passeggiata. Su Klaus Allofs, l’attaccante avversario. In un mondo privo di VAR ed in cui le espulsioni erano piuttosto rare, l’arbitro se ne accorse, vedendo però solo il fallo di Riccardino e non la provocazione del volpone crucco. Invitò caldamente Ferri a proseguire la sua camminata verso gli spogliatoi.

Riccardo Ferri aveva allora 22 anni, l’età di un MITT ma ormai un veterano, dato che era in prima squadra da diverso tempo. L’episodio dimostrò che aveva ancora l’irruenza di un MITT, ma anche una ineliminabile MITTionaggine che lo accompagnò per tutta la carriera.

E fu così che mentre il ventiduenne Riccardo prendeva la via delle docce, Castagner optò per la sostituzione più logica: dentro Graziano Bini, fuori Franco Causio.

Rispetto a Ferri, Bini difettava di giovinezza, velocità, ed anche un po’ di salute. Però sapeva tenere ancora a bada gli avversari evitando di camminarci sopra. C’era inoltre senz’altro un senso di rivalsa, visto che Ferri gli aveva preso il posto.

Dovete sapere, piccoli amici, che allora le squadre italiane giocavano per lo più in contropiede, specialmente quando si trattava di difendere il risultato, e non si vergognavano di dirlo o usare supercazzole come ripartenze veloci, ribaltamenti di fronte o cambi di gioco improvvisi.

In fondo bastava avere tre giocatori buoni per fare un contropiede decente: un centrocampista preciso, allora detto regista, che fosse in grado di innescare due punte veloci. L’Inter li aveva tutti e tre, ed erano Liam Brady, Kalle Rumenigge e Spillo Altobelli.

Funzionava così: la difesa rinviava a caso dalla propria area, se diceva bene il pallone raggiungeva uno dei tre davanti (ai quali andrebbe aggiunto Causio, un buon contropiedista nonostante i 36 anni), che prendevano di infilata la difesa avversaria.

Proprio a voler dare una dimostrazione pratica di questo principio, l’azione del vantaggio nerazzurro nacque da un recupero di Bergomi e Brady, con l’irlandese che rilanciò verso Spillo. Su di lui venne commesso fallo nella trequarti colognesca, o coloniale, insomma crucca.

Se c’è una cosa che i tedeschi non avevano ancora capito dalla finale mondiale dell’82, oltre al contropiede, è che le squadre italiane battevano i calci di punizione a sorpresa; e così, mentre la barriera era schierata dal baffuto portiere Schumacher e tutti si aspettavano la battuta di Brady, il centrocampista dublinese toccò il pallone alla sua destra, dove un libero Marini, fino ad allora inoperoso, lasciò partire un destro di rara potenza, ed ancora più rara precisione, che Schumacher non solo non vide partire, ma neppure arrivare.

L’Inter era passata in vantaggio, ed io sentivo una sensazione strana, come quando ti accorgi che un po’ di aria comincia a passare attraverso le narici ed uno dei miliardi di virus del raffreddore in circolazione sta abbandonando temporaneamente le tue vie respiratorie.

Seguii il resto della partita in apnea: i crucchi, ignari degli insegnamenti di due guerre mondiali e svariate finali perse, si gettarono romanticamente in avanti: Strum und Drang und calci d’angolo che non fruttarono granchè. Walterone Zenga rispose alla grande con parate decisive ed uscite sconsiderate che fecero sobbalzare perfino mio padre (noto non intenditore di calcio) sul divano: “Ma dove cazzo va?”

Alla fine riuscirono pure a pareggiare, a circa metà del secondo tempo, con tale Bein che fulminò Zenga dalla distanza; dovevano segnare altri due gol per passare il turno, invece li segnammo noi.

Il 2-1 venne da un altro contropiede, con Mandorlini che crossò dalla sinistra; su un’incerta respinta del difensore biancorosso si avventò Kalle Rumenigge che tentò di spaccare la porta di destro. Il tirò non era angolatissimo, ma credo che Schumacher cercò di evitare più che altro di prendere quella cannonata in faccia o sul polso.

Il terzo gol venne da un angolo battuto corto: Brady-Baresi-Brady, cross a rientrare e colpo di testa di nuovo di Kalle. Palla sotto l’incrocio.

Da allora generazioni di interisti hanno ritentato la battuta di corner corti, con effetti talora drammatici che hanno mandato in porta frotte di nostri avversari.

Ma non rattristiamoci, è tempo di gioire crogiolandosi nei ricordi: al gol del 3 a 1 papà si alzò dal divano che pareva Pertini alla finale dell’82, io sentii una specie di fiotto al cuore e capii di essermi innamorato perdutamente dei colori nerazzurri.

La felicità, si sa, è una sensazione passeggera. Per me nell’85 durò almeno fino al turno successivo, quando perdemmo la semifinale contro il Real Madrid.

Perdemmo anche il campionato quell’anno, arrivando terzi dietro Verona e Torino.

Ma la gioia che avevo provato quella sera non mi fece mai più cambiare idea, avevo trovato la squadra che mi faceva battere il cuore, maledire e sperare più volte in una stagione, una partita, a volte persino in una stessa azione.

Dopo trentacinque anni sono ancora qui, ad emozionarmi per questi colori come un bambino con la stessa passione, lo stesso stupore.
E pure lo stesso cazzo di raffreddore, puttana la miseria!

Looking Back, l'Inter come non ve l'hanno mai raccontata: COLONIA - INTER 1-3

Il 20 Marzo 1985 avevo il raffreddore.

Ne sono sicuro perchè da bambino ero cagionevole di salute e costantemente reffreddato. Con l’eccezione dei mesi estivi, avevo sempre il naso chiuso, gli occhi lacrimanti ed il mondo che mi circondava aveva confini confusi, ovattati.

Tra un Vicks VapoRub e un altro, mi interessavo di calcio. Avevo sette anni e non avevo scelto ancora una squadra del cuore. Non avevo genitori che seguissero il maggiore sport nazionale, mia sorella men che meno. A scuola erano praticamente tutti juventini, ma i bianconeri non mi avevano mai scaldato il cuore. Sognavo una squadra romantica, che spezzasse il dominio dei non colorati ed inaugurasse un periodo nuovo di partite vinte con slancio, ma senza arroganza.

Dall’album Panini i volti di calciatori dai nomi esotici come Walter Schachner (Torino), Graeme Souness (Sampdoria), William Brady (Inter) cercavano di convincermi a sostenere la squadra per la quale giocavano. Ero fortemente indeciso.

Quel 20 marzo si giocava Colonia – Inter, gara di ritorno dei quarti di finale di coppa UEFA. All’andata l’Inter aveva vinto 1 a 0 a Milano, ma io non avevo visto la partita. Né aveva molto senso per me sentire di gare di andata e ritorno. Per non parlare del valore dei gol segnati in trasferta.

Quella per me era solo una partita, giocata da una squadra per la quale simpatizzavo.

I primi minuti non furono granchè, niente di esaltante sembrava accadere. Poi al 9’ Ferri decise di ravvivare il match, andando a farsi una passeggiata. Su Klaus Allofs, l’attaccante avversario. In un mondo privo di VAR ed in cui le espulsioni erano piuttosto rare, l’arbitro se ne accorse, vedendo però solo il fallo di Riccardino e non la provocazione del volpone crucco. Invitò caldamente Ferri a proseguire la sua camminata verso gli spogliatoi.

Riccardo Ferri aveva allora 22 anni, l’età di un MITT ma ormai un veterano, dato che era in prima squadra da diverso tempo. L’episodio dimostrò che aveva ancora l’irruenza di un MITT, ma anche una ineliminabile MITTionaggine che lo accompagnò per tutta la carriera.

E fu così che mentre il ventiduenne Riccardo prendeva la via delle docce, Castagner optò per la sostituzione più logica: dentro Graziano Bini, fuori Franco Causio.

Rispetto a Ferri, Bini difettava di giovinezza, velocità, ed anche un po’ di salute. Però sapeva tenere ancora a bada gli avversari evitando di camminarci sopra. C’era inoltre senz’altro un senso di rivalsa, visto che Ferri gli aveva preso il posto.

Dovete sapere, piccoli amici, che allora le squadre italiane giocavano per lo più in contropiede, specialmente quando si trattava di difendere il risultato, e non si vergognavano di dirlo o usare supercazzole come ripartenze veloci, ribaltamenti di fronte o cambi di gioco improvvisi.

In fondo bastava avere tre giocatori buoni per fare un contropiede decente: un centrocampista preciso, allora detto regista, che fosse in grado di innescare due punte veloci. L’Inter li aveva tutti e tre, ed erano Liam Brady, Kalle Rumenigge e Spillo Altobelli.

Funzionava così: la difesa rinviava a caso dalla propria area, se diceva bene il pallone raggiungeva uno dei tre davanti (ai quali andrebbe aggiunto Causio, un buon contropiedista nonostante i 36 anni), che prendevano di infilata la difesa avversaria.

Proprio a voler dare una dimostrazione pratica di questo principio, l’azione del vantaggio nerazzurro nacque da un recupero di Bergomi e Brady, con l’irlandese che rilanciò verso Spillo. Su di lui venne commesso fallo nella trequarti colognesca, o coloniale, insomma crucca.

Se c’è una cosa che i tedeschi non avevano ancora capito dalla finale mondiale dell’82, oltre al contropiede, è che le squadre italiane battevano i calci di punizione a sorpresa; e così, mentre la barriera era schierata dal baffuto portiere Schumacher e tutti si aspettavano la battuta di Brady, il centrocampista dublinese toccò il pallone alla sua destra, dove un libero Marini, fino ad allora inoperoso, lasciò partire un destro di rara potenza, ed ancora più rara precisione, che Schumacher non solo non vide partire, ma neppure arrivare.

L’Inter era passata in vantaggio, ed io sentivo una sensazione strana, come quando ti accorgi che un po’ di aria comincia a passare attraverso le narici ed uno dei miliardi di virus del raffreddore in circolazione sta abbandonando temporaneamente le tue vie respiratorie.

Seguii il resto della partita in apnea: i crucchi, ignari degli insegnamenti di due guerre mondiali e svariate finali perse, si gettarono romanticamente in avanti: Strum und Drang und calci d’angolo che non fruttarono granchè. Walterone Zenga rispose alla grande con parate decisive ed uscite sconsiderate che fecero sobbalzare perfino mio padre (noto non intenditore di calcio) sul divano: “Ma dove cazzo va?”

Alla fine riuscirono pure a pareggiare, a circa metà del secondo tempo, con tale Bein che fulminò Zenga dalla distanza; dovevano segnare altri due gol per passare il turno, invece li segnammo noi.

Il 2-1 venne da un altro contropiede, con Mandorlini che crossò dalla sinistra; su un’incerta respinta del difensore biancorosso si avventò Kalle Rumenigge che tentò di spaccare la porta di destro. Il tirò non era angolatissimo, ma credo che Schumacher cercò di evitare più che altro di prendere quella cannonata in faccia o sul polso.

Il terzo gol venne da un angolo battuto corto: Brady-Baresi-Brady, cross a rientrare e colpo di testa di nuovo di Kalle. Palla sotto l’incrocio.

Da allora generazioni di interisti hanno ritentato la battuta di corner corti, con effetti talora drammatici che hanno mandato in porta frotte di nostri avversari.

Ma non rattristiamoci, è tempo di gioire crogiolandosi nei ricordi: al gol del 3 a 1 papà si alzò dal divano che pareva Pertini alla finale dell’82, io sentii una specie di fiotto al cuore e capii di essermi innamorato perdutamente dei colori nerazzurri.

La felicità, si sa, è una sensazione passeggera. Per me nell’85 durò almeno fino al turno successivo, quando perdemmo la semifinale contro il Real Madrid.

Perdemmo anche il campionato quell’anno, arrivando terzi dietro Verona e Torino.

Ma la gioia che avevo provato quella sera non mi fece mai più cambiare idea, avevo trovato la squadra che mi faceva battere il cuore, maledire e sperare più volte in una stagione, una partita, a volte persino in una stessa azione.

Dopo trentacinque anni sono ancora qui, ad emozionarmi per questi colori come un bambino con la stessa passione, lo stesso stupore.
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